A PIECE OF HEAVEN

COSTIERE E AREA FLEGREA

MANGIARE/BERE a Napoli

Mangiare e bere a Napoli

Se si parte dal refrain di una nota canzone, allora si parte dalla fine: dal dolce (di zucchero) che sta sul fondo della tazzina di caffè.

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Cos’è la napoletanità senza la tazzulella di caffè? E senza la sfogliatella riccia? E senza il babà? Non sono consuetudini abusate: sono fatti. Da assaporare a occhi chiusi. E la pizza?

  Mastunicola, Marinara o Margherita, è sempre la pizza di Napoli   Lo spartiacque fu l’arrivo dal Perù del pomodoro, agli inizi del Seicento. Una novità destinata a rivoluzionare le abitudini alimentari e le tradizioni gastronomiche anche dei napoletani, che impiegarono circa un secolo a fare di quel frutto, rosso e saporito, uno dei pilastri della loro cucina, soprattutto popolare. Così, proprio a partire dall’ingresso in cucina del nuovo arrivato, si può stabilire un prima e un dopo nel modo di cucinare e anche di concepire la pizza nella città che si è conquistata sul campo l’onore di esserne considerata la patria e che ha saputo farne una delle sue eccellenze riconosciute a livello mondiale. A voler essere precisi nella ricostruzione storica, la...

Questo morbido disco d’impasto cotto nel forno a legna, coronato dalla mozzarella o dal fiordilatte e dal basilico; o dal pomodoro e dall’origano, e condito con effetti mirabolanti di fantasia e cose buone, non si smette mai di divorarlo, ovunque: in pizzeria; on the road, «piegata a libretto» come si faceva una volta; o in formato ridotto nelle sempre più diffuse pizzetterie, fast food della storia breve e del futuro. Una pizza che è anche fritta, che è «calzone», o «a pallone», con due dischi sovrapposti e imbottiti di ricotta e «ciccioli» di maiale. Sembra difficile pensare a qualcosa di più calamitante per il palato. Eppure siamo solo, in qualche modo, a una sorta di antipasti. L’universo culinario napoletano è davvero infinito, e non tanto per i golosi, perché non bastano solo… la pizza e soprattutto i maccheroni e tutte le declinazioni della pasta per evocarlo, ma le grandi materie prime, marinare e terricole (le verdure, le «foglie, gli ortaggi), che completano i menu. Prodotti che confinano con il sublime e sposano perfettamente le esigenze non solo dei cuochi ostinatamente tradizionali delle osterie e dei «vini e cucina» ma, soprattutto, favoriscono le conquiste di quanti scalano le vette internazionali della gastronomia con ardite elaborazioni che sconfinano nell’arte e nel design. Restando concreti, si possono ricordare le alici dorate e fritte e la zuppa di soffritto; il fritto misto alla napoletana e gli spaghetti alle vongole veraci; e, ancora, la frittata di spaghetti o, soprattutto, il sartù di riso, i moscardini «al pignatiello» e il gattò di patate, passando per una braciola di maiale al ragù, per un’insalata di rinforzo, senza rinunciare – in questo elenco appena approssimativo – a una profumata pastiera. Napoletana, naturalmente.

LA RICETTA

Il ragù

Il piatto totemico della città si prepara con carne di manzo o maiale, cipolle, concentrato di pomodoro, lardo, strutto, olio extravergine d'oliva, vino rosso, aglio, sale e pepe, utilizzando un tegame di terracotta nel quale, dopo aver tritato il lardo con l’aglio, si mette la carne legata con lo spago da cucina insieme alla cipolla tritata, l’olio e un pizzico di pepe. Si copre e si fa cuocere a fuoco bassissimo per circa un’ora, girando di tanto in tanto la carne. Poi si versa il vino poco alla volta e, sempre con attenzione, dopo aver aumentato un po’ la fiamma, si aggiunge il concentrato sciolto in pochissima acqua e, dopo, due o tre mestoli d'acqua. Si abbassa la fiamma e si fa cuocere per un paio d’ore, curando la quantità del liquido. Il segreto? Il bollore deve somigliare a un flebile crepitio, il «pippiare» napoletano. Quando la carne è cotta, tagliata a fette, va servita a parte come secondo.

 

I BISCOTTI SPEZIATI CHE ANNUNCIANO IL NATALE

Sono dolci antichi. Dal sapore inconfondibile e dall’aroma che fa subito Natale. Dolci immediatamente identificati con Napoli. Dove tutti si sono inizialmente radicati, per poi diventare patrimonio dell’intera Campania, riproposti nella versione classica o con qualche variazione locale consolidatasi anch’essa nel tempo. Non a caso, sono stati tutti riconosciuti come Pat, Prodotti agroalimentari tradizionali. E proprio la tradizione prevede che vengano preparati già per l’8 dicembre, per poterli servire o regalare in occasione della festa dell’Immacolata e poi a conclusione dei pranzi e delle cene del periodo natalizio.

I Roccocò

Sebbene lo evochino nel nome, i roccocò avevano già quattro secoli quando si affermò lo stile artistico-architettonico che ebbe enorme diffusione a Napoli.  La loro origine, infatti, risale al 1320, quando le monache del Real Convento della Maddalena impastarono per la prima volta insieme mandorle, farina, zucchero e canditi, con l’aggiunta della buccia profumata di                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      mandarino e di una mescolanza di spezie, decisiva per il sapore finale, che è nota come pisto napoletano. Il risultato fu un biscotto secco dalla forma simile a una ciambella schiacciata, color marrone scuro e decisamente duro. Tanto che proprio da questa consistenza simile alla roccia, rocaille in francese, derivò realmente il suo nome.  L’ideale è servirlo a fine pasto accompagnato da un vino liquoroso.

I Mustacciuoli

C’erano, in epoca romana, delle focacce dolci, fatte con mosto d’uva, che venivano avvolte di profumate foglie di lauro per la cottura ed erano servite di solito come saluto agli ospiti prima di congedarli. Erano conosciute come mustacei, dal mustum, molto, o forse da mustax, alloro. E Catone non mancò di citarle nel suo De agricoltura, aggiungendo agli ingredienti stabiliti anche l’anice. E quelli che oggi conosciamo come mustacciuoli, si collegano anche ai più recenti mostazoli di mosto cotto conosciuti nel tardo Medio Evo. Nel Cinquecento, poi, facevano parte delle ricette proposte dal cuoco personale di Papa Pio V, Bartolomeo Scappi. La versione napoletana, dalla caratteristica forma a rombo, ha sostituito il mosto originario con il miele e con il cioccolato della glassa. Una variazione tutta beneventana, diffusa in tutto il Sannio, è più morbida e contiene nell’impasto anche il liquore Strega.

I Susamielli

Sono un trionfo di spezie e il loro nome deriva probabilmente dal sesamo e dal miele con cui erano preparate le piccole paste dolci offerte a Core e Demetra, le divinità dei Misteri Eusini. Avrebbero un’origine greca, dunque, i Susamielli napoletani, ma la storia più recente li fa identificare con le Sapienze prodotte dalle monache clarisse del Convento di Santa Maria della Sapienza, da cui sicuramente hanno ereditato la forma ellittica simile alla esse. E per questo sono stati messi in relazione anche a un omaggio a Luigi Settembrini. Sta di fatto che i Susamielli, con buccia d’arancia nell’impasto, erano donati agli zampognari che entravano a suonare nelle case per le novene dell’Immacolata e di Natale, e al personale di servizio. Poi, c’era una versione farcita con marmellata definita come Susamielli del buon cammino. Quelli che ancora si preparano oggi sono i cosiddetti Susamielli nobili, fatti con farina bianca, con farina di mandorle e con l’immancabile pisto napoletano.

I Raffiuoli

C’è ancora un monastero dietro un altro dei dolci tipici che accompagnano il Natale partenopeo. Quello delle Monache benedettine di San Gregorio Armeno, la strada delle tradizioni natalizie per eccellenza, che presero ispirazione dai ravioli del nord Italia per una loro originale versione dolce. Fatta di pan di Spagna con una inconfondibile copertura di glassa di zucchero, bianca come la neve.  

 

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