Era sicuramente bella da percorrere in carrozza. Accompagnati costantemente dal panorama del mare e dall’inconfondibile sagoma del Vesuvio, con cieli azzurri popolati da pittoresche nuvole bianche, che sembravano esservi state deposte dai pittori allora più in voga nel regno.
Era nota come Strada Regia delle Calabrie e in quel tratto seguiva fedelmente la linea di costa fino alle pendici del vulcano. Spettacolare in tutte le stagioni, anche in pieno inverno, quando la luminosità del sole del sud esaltava i colori vivaci di limoni, arance e mandarini maturi sui tanti alberi di agrumi dei lussureggianti giardini delle ville nobiliari. Per quei frutti dorati, al di là della denominazione ufficiale, quella strada era diventata il Miglio d’Oro. Era lungo esattamente un miglio, infatti, il tratto tra Ercolano, allora ancora chiamata Resina, e Torre del Greco, prescelto dai nobili napoletani per le loro sontuose residenze di villeggiatura. E proprio le ville erano di riferimento per l’inizio e la fine di quel particolarissimo miglio di strada, che andava da quella di proprietà dei De Bisogno di Casaluce, nel cuore di Resina, al Palazzo Vallelonga di Torre del Greco.
L’innamoramento di re Carlo
A convincere le casate più in vista del regno ad andare a villeggiare in quei luoghi all’ombra del Vesuvio, ripercorrendo le orme dei ricchi romani di epoca imperiale, era stato Carlo di Borbone. Per una pura casualità, il re e la regina Maria Amalia nel 1738 si erano dovuti fermare a Portici, nella villa che si era fatto costruire Emanuele Maurizio di Lorena, duca d’Elboeuf. E i sovrani si erano innamorati del posto e della villa, tanto da decidere di edificare proprio lì vicino una nuova residenza reale, ovvero quella che sarebbe diventata la Reggia di Portici. Naturalmente, anche per la necessità dei cortigiani di accompagnare il re, diversi nobili ne seguirono l’esempio, acquistando terreni prospicienti la strada che conduceva alle Calabrie per costruirvi le loro dimore estive. Un’affermazione di status evidenziata dal livello altissimo degli architetti chiamati a progettare le nuove residenze - Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Ferdinando Sanfelice, Domenico Antonio Vaccaro, Mario Gioffredo - come degli artisti e artigiani che ne fecero dei gioielli particolarissimi, ciascuno diverso dall’altro. Con una prevalenza stilistica del tardo barocco tendente al rococò e in qualche caso l’anticipazione di elementi neoclassici.
Tutte le facciate e gli ingressi alle ville davano sulla strada del Miglio d’Oro, per poter adeguatamente ostentare il lusso e la magnificenza degli edifici a quanti viaggiavano su quel tratto. Era stato il duca di Carafa a suggerire quello spettacolare allineamento di corpi di fabbrica, poi patrocinato anche dalla Casa Reale, lungo un asse tra il Vesuvio e il mare. E con il valore aggiunto di quelle magnifiche residenze, la definizione di Miglio d’Oro trovò un’ulteriore giustificazione.
I parchi digradanti verso il mare
A rendere ancora più bella la strada e più appariscenti le diverse proprietà erano i loro splendidi parchi, digradanti verso il mare, a cui erano dedicati capitali e cure non meno rilevanti di quelli riservati agli edifici. Perché anche gli spazi verdi, progettati dai grandi architetti, erano diventati motivo di orgoglio e di rivalità tra i proprietari, che facevano a gara a chi potesse esibire le più innovative e particolari trovate: le scalinate e le terrazze panoramiche, i gazebo e i pergolati di viti, le statue e le fontane con giochi d’acqua, i boschetti e le aiole fiorite, i padiglioni e i capanni affacciati sul mare, ideali per godere della piacevole brezza marina nelle ore più calde delle giornate estive. In tutti i giardini era presente una statua di San Gennaro, nel ricordo di quando, nel 1767, le invocazioni e preghiere al protettore avevano fermato la lava del Vesuvio pericolosamente vicina alla città.
E non mancavano pezzi antichi, trovati scavando nel terreno che custodiva lo strato di epoca romana. Proprio la costruzione delle ville favorì la predazione di reperti archeologici, facilitata da cunicoli scavati per raggiungere i siti romani ipogei e depredarli di tutto ciò che era possibile. Oggetti preziosi che in parte entravano nelle collezioni ostentate nelle ville e in parte venivano venduti, con ottimi guadagni, in mezza Europa.
Le Ville Vesuviane
Alla fine, le ville edificate lungo la strada panoramica all’ombra del Vesuvio furono duecento. Perlopiù tutte risalenti al XVIII secolo e collocate tra Portici, Resina, Barra, San Giorgio a Cremano e Torre del Greco. Ma quelle villeggiature dorate in luoghi da favola non durarono a lungo. Con la costruzione nel 1839 del primo tratto di linea ferroviaria in Italia, la famosa Napoli-Portici, cominciarono a insediarsi in zona attività industriali di varia natura, dalle concerie per la lavorazione dei pellami ai cantieri navali. A seguito di questo veloce sviluppo industriale, che portò a trasferirsi vicino ai luoghi di lavoro operai e tecnici, la nobiltà cominciò a disamorarsi e a guardare altrove. Poi, fatta l’unità d’Italia, nel 1869, la borghesia e il proletariato finirono con il prevalere, segnando il declino delle ville, che furono progressivamente abbandonate. E la Seconda Guerra Mondiale le vide bombardate e saccheggiate. Poi sempre più degradate. Fin quando, nel 1971, il Parlamento fondò l’Ente Ville Vesuviane «per provvedere alla conservazione, al restauro, alla valorizzazione del patrimonio artistico costituito dalle Ville Vesuviane».
Le Ville Vesuviane ancora esistenti e oggi tutelate sono 122. I restauri iniziati a fine anni ’70, con il recupero di Villa Campolieto, aperta al pubblico nel 1984, hanno consentito di tutelare attivamente un patrimonio di straordinario valore storico-artistico-architettonico e di creare un itinerario di visita di notevole fascino.
A Portici si trovano una trentina di ville, oltre alla Reggia Reale. In particolare, oltre a Palazzo d’Elboeuf da cui tutto ebbe inizio, Villa Savonarola, Villa Orsini di Gravina, Villa Zelo, Palazzo duca di Bagnara.
A Barra si ammira Villa Bisignano.
Erano una trentina anche le ville di San Giorgio a Cremano, tra le quali Villa Bruna, Villa Vannucchi, Villa Pignatelli, Villa Tufarelli.
Diciotto ville a Torre del Greco, tra cui Palazzo Vallelonga, Villa del Cardinale, Villa Guerra, Villa Mennella, Villa Prata, Villa delle Ginestre
Situate in gran parte su Corso Resina che è parte della Via delle Calabrie, sono ventidue le ville di Ercolano. La più famosa è Villa Campolieto, dove ha sede l’Ente Ville Vesuviane, oltre a Villa Favorita e Villa Aprile, villa Signorini in via Roma, Villa Durante e Villa Petti Ruggiero.
Villa Campolieto, la più famosa delle ville vesuviane
Sei anni di restauri. Per restituire la bellezza perduta alla luminosa dimora estiva dei De Sangro, la Villa Campolieto, assurta a simbolo della rinascita del famoso Miglio d’Oro. Proprio lì, sull’antica Strada Regia delle Calabrie, oggi corso Resina, condivide oggi come ieri la posizione più panoramica con la vicina Reggia di Portici e un altro piccolo gioiello architettonico assai prossimo, la Villa La Favorita. A voler costruire una nuova residenza presso l’antica Ercolano era stato il principe Luzio De Sangro, duca di Casacalenda, che, per portare a buon fine la sua idea, nel 1775 aveva scelto un quotatissimo architetto del momento, Mario Gioffredo, allievo di Francesco Solimena e noto come il Vitruvio napoletano. Ma l’intesa con lui non durò a lungo e cinque anni dopo, per le incomprensioni nate con i committenti, Gioffredo decise di lasciare i lavori anzitempo. A sostituirlo per un breve periodo fu Michelangelo Giustiniani, ma già 1763 a dirigere i lavori subentrò un personaggio di assoluto valore come Luigi Vanvitelli. L’artefice di tanti capolavori si dedicò all’impresa della villa costiera per dieci anni, fino alla sua morte. Quando, per completare pure quest’altra incompiuta paterna, oltre alla Reggia di Caserta, si impegnò Carlo Vanvitelli, che consegnò la nuova villa nel 1775. Dopo Luzio, la prestigiosa dimora fu ereditata dal figlio Scipione, che però morì senza eredi. La villa, dunque, passò ai nipoti e ne cominciò ben presto la lenta decadenza, durata secoli, che la mandò progressivamente in rovina. Destino fino all’occupazione durante l’ultima guerra mondiale. Entrata ne patrimonio della Fondazione Ville Vesuviane nel 1977, nel 1984 iniziò l’accurato restauro diretto dall’architetto Paolo Romanello, al termine del quale Villa Campolieto divenne sede della stessa Fondazione.
L’edificio è a pianta quadrata e si sviluppa su cinque livelli, con quattro blocchi separati dai bracci di una galleria centrale a croce greca e con una cupola illuminata da quattro finestre ovali. La facciata posteriore si apre con un portico ellittico a colonne toscane che forma un belvedere coperto fon vista sul mare e dotato di una vasca e di una scala ellittica, a collegare l’edifico al giardino sottostante. A sinistra si trova la scuderia, che Gioffredo arricchì con volte a crociera e pilastri di piperno.
Dal canto suo, Vanvitelli rivoluzionò la scala con un rampante centrale e due laterali, in linea con quanto realizzato già a Caserta, e completò la scenografia inserendovi un mascherone e una grottesca nel lato interno dell’arco d’ingresso, oltre a sei nicchie occupate da statue di soggetto mitologico, che accompagnano la salita al piano superiore. Nel vestibolo, l’atrio coperto a cupola è fiancheggiato da due nicchie absidali. La sua funzione era di accogliere e indirizzare gli ospiti verso i loro appartamenti. La luce lo invade dagli ampi finestroni, che equiparano l’interno all’esterno affrescato da Fedele Fischetti e Gerolamo Starace con cartigli, elementi naturalistici e architettonici, secondo l’allora imperante gusto barocco. La stanza Cannocchiale, così chiamata per la sua particolare forma, immette negli appartamenti della famiglia fino alla magnifica sala da pranzo. Se Gioffredo l’aveva disegnata a pianta quadrata con il soffitto a botte, Vanvitelli ne stravolse l’impianto, preferendo una pianta circolare, e la realizzò grazie all’innovativa tecnica dell’“incannucciata”, che utilizza una nervatura in legno, con sovrapposte canne di bambù, poi ingessata e affrescata dai fratelli Magri e trasformata da un trompe l’oeil in un ampio gazebo ricoperto da un vitigno dei fondi di famiglia, sotto il quale i padroni di casa e i loro ospiti usavano soffermarsi durante l’estate. Nell’affresco, in un gruppo di giocatori di carte è raffigurato anche De Sangro; si ammirano, inoltre, le isole del golfo e, dopo la porta, si vede un raro autoritratto di Vanvitelli, che osserva il cielo con il monocolo. Purtroppo, parte dell’affresco è andata distrutta, con una delle quattro stagioni angolari. Dalla spiccata influenza di gusto femminile, la Sala degli Specchi introduceva al Salone delle Feste, cuore di tutte le ville vesuviane. Il soffitto a botte conserva una parte di affresco con figure mitologiche, amorini e festoni decorativi. Campeggiano sulle pareti otto medaglioni raffiguranti la vita di Ercole, a cui si aggiungono due nicchie con le statue di Ercole e Cupido e nelle lunette sopra le porte l’Abbondanza e la Sapienza.
Il panorama dal terrazzo è mozzafiato e spazia su tutto il golfo di Napoli, da Posillipo e Ischia alla Penisola sorrentina e Capri. Dai lati del ballatoio partono due scale che conducono alla passeggiata scoperta del porticato: a destra quattro garitte limitavano una peschiera e facevano ombra durante la pesca. L’affaccio interno è poi sull’area archeologica ercolanese e sulla Reggia di Portici, Al centro della passeggiata, la scala ellittica porta al palmeto e alla fontana. Sullo spazio circostante la villa, giganteggia l’immancabile sagoma del Vesuvio.
Villa delle Ginestre, dove soggiornò Leopardi
C’è una frazione di Torre del Greco intitolata a Leopardi. Non è solo un omaggio al più grande poeta italiano dell’800, ma un chiaro riferimento alla sua presenza nella cittadina vesuviana. Dove soggiornò per diversi mesi, dall’estate del 1836 al febbraio 1837 e dove stava per tornare proprio quando fu colto dal malore fatale nel giugno di quell’anno. Ad accoglierlo avrebbe ritrovato il paesaggio e lo “sterminator Vesevo” che gli aveva ispirato “La ginestra”, una delle sue liriche più intense, celeberrima. E gli ambienti familiari della grande villa dove era ospite di Giuseppe Ferrigni, marito di Enrichetta Ranieri e, dunque, cognato del suo caro amico Antonio.
All’epoca in cui cominciavano a essere edificate le nuove ville dei nobili napoletani sulla strada tra Portici e Resina, lontana dalla costa, ai piedi del colle Sant’Alfonso nel territorio di Torre del Greco, e non allineata come le altre sulla strada regia delle Calabrie, sorse la residenza estiva del canonico Simioli, teologo molto in vista nella capitale e con amici importanti, che ospitava spesso nella villa a due piani con vista sul Vesuvio. Tra loro c’erano il ministro Bernardo Tanucci e anche Luigi Vanvitelli, probabilmente autore del progetto della scala interna che conduce al piano superiore. L’edificio, infatti, a pianta quadrata, già originariamente si sviluppava su due piani.
La villa del canonico Simioli fu ereditata da una nipote sposata a Diego Ferrigni, genitori di Giuseppe che nel 1626 aveva sposato Enrichetta Ranieri. E i Ranieri accolsero in seguito Leopardi a Napoli e gli aprirono anche le porte della villa di Torre del Greco, affinchè il clima salubre potesse giovare alla sua salute malferma. Il poeta apprezzò quel luogo e il paesaggio che lo circondava e durante la sua permanenza compose “La ginestra” e il “Tramonto della luna”.
Proprio Giuseppe aveva piantato davanti alla casa due cipressi, già lì quando fu visitata da Leopardi e uno dei quali è ancora al suo posto. Nel 1847 Ferrigni si trasferì a Napoli, per cui la residenza torrese tornò a essere abitata solo d’estate. Fin quando, sul finire del secolo, non vi si trasferì un suo nipote che aveva sposato Adelaide, pronipote di Leopardi, che morì nella villa dopo qualche anno. Un altro discendente di Ferrigni, il pronipote Antonio Carafa, nel 1907 fece costruire lo scenografico portico neoclassico, scandito dalle colonne doriche che sorreggono la grande terrazza del secondo piano, affacciata sui magnifici panorami del Vesuvio e del mare del golfo di Napoli. Trent’anni dopo, nel 1937, la villa accolse un altro ospite d’onore, il re Vittorio Emanuele III, quando fu dichiarata monumento nazionale con l’apposizione di una lapide commemorativa. L’ultimo a ereditare la villa fu il marito della contessa Vittoria Carafa d’Andria, Alessandro De Gavardo, che vi si spense nel 1960. Due anni dopo, la proprietà fu acquista dall’Università di Napoli “Federico II”, che l’ha assegnata in comodato all’Ente Ville Vesuviane. La storica residenza è stata accuratamente restaurata nel 2012, grazie al Centro Studi Leopardiani di Recanati. La camera da letto da cui si ammira il mare, utilizzata anche come studio da Leopardi, ha mantenuto l’aspetto e il mobilio originari. Ed è oggi parte fondamentale del percorso di visita interamente dedicato al soggiorno torrese e agli anni napoletani dell’illustre autore dello “Zibaldone”.
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